venerdì 24 giugno 2016

Quel 28 ottobre 1971 alla Camera dei Comuni...


28 ottobre 1971 – Camera dei Comuni 

L’atmosfera era carica, le gallerie di diplomatici affollate di spettatori, l’ingresso del palazzo di Westminster bloccati dai manifestanti. C’erano persino sostenitori e curiosi tra i passanti nelle strade limitrofe, gente che non voleva assolutamente mancare un’occasione tanto importante. Il dibattito sulla richiesta della Gran Bretagna di aderire alla Comunità Europea aveva ormai raggiunto il suo culmine.

La Camera stava per votare.

“Vedete laggiù la galleria degli ambasciatori?”, mormorò un addetto anziano. “Non l’ho mai vista così piena da quando ho cominciato a lavorare qui”. Per coloro che ebbero la fortuna di assistere a quell’evento, in un epoca non ancora dominata dalla televisione, il dibattito sembrò trasformarsi in un palcoscenico per molti parlamentari, dal focoso Michael Foot al pacato Jim Callaghan, al disinvolto Jeremy Thorpe.
 Anche Jeffrey Archer decise di parlare, ma solo per lamentarsi delle code all’esterno della Camera. Ma quando il Primo Ministro conservatore Edward Heath prese la parola, l’atmosfera sembrò diventare ancora più elettrica.

Hearth era noto per essere un oratore impacciato con le sue vocali strozzate che riflettevano l’insicurezza derivata dall’umile infanzia nel Kent. Fin da quando aveva servito nell’artiglieria reale, durante la seconda guerra mondiale, il primo ministro si era mostrato un appassionato sostenitore del futuro europeo della Gran Bretagna. Ora era arrivato il suo momento.
“Penso che nessun primo ministro prima d’ora abbia chiesto a quest’aula in tempo di pace di prendere una decisione di tale importanza, come mi accingo a fare in questo momento”, esordì. Elencò poi i grandi cambiamenti avvenuti nel mondo nel corso degli ultimi anni, dall’inizio della globalizzazione all’ascesa della Cina.

Dopo il discorso di Heath, la Camera procedette con il voto. Nessuno poteva prevedere il risultato. Quanti conservatori ribelli si sarebbero uniti a Enoch Powell sfidando le ire del partito? Quanti laburisti favorevoli all’Europa avrebbero seguito Roy Jenkins, l’ex cancelliere e guida dell’intellighenzia liberale nella lobby governativa? La tensione era tale che si sarebbe potuta tagliare con un coltello ed alcuni amici di Jenkins erano così preoccupati della sua sicurezza che Roy Hattersley suggerì di organizzare alcune guardie del corpo per scortarlo fino alla macchina dopo la fine della votazione.

Quando finalmente gli scrutatori annunciarono il verdetto – 356 voti favorevoli all’ingresso in Europa, 244 contrari – ci fu una vera e propria esplosione di grida e di insulti. “Bastardo fascista”, gridarono gli avversari all’indirizzo di Jenkins, mentre altri spintonavano e cercavano di prendere a pugni i compagni “traditori” che si erano ribellati alle direttive del partito. Perfino l’austero Enoch Powell si lasciò coinvolgere nella baraonda. “Non si doveva fare, non si doveva fare”, si mise a gridare dal suo banco.


La notizia del voto viaggiò velocemente. L’ex primo ministro Harold Macmillan era rimasto in attesa sulle scogliere di Dover con un grande falò preparato dal movimento europeo. Appena giunse il risultato il falò fu acceso tra le acclamazioni di 500 persone presenti. Più avanti nella notte, un fuoco di risposta venne acceso sulla riva opposta, nel continente, vicino a Calais.

Ma quello fu un giorno di gioia immensa, il più bello di tutta la sua vita politica, soprattutto per un uomo che restio a manifestare le sue emozioni in pubblico. Edward Heath, che si eclissò dai festeggiamenti. Ripensò, come scrisse più tardi, “ai campi di battaglia in Francia, Belgio e Olanda, ai raduni di Norimberga e alla voce scoppiettante di Wendell Wilkie che ascoltavo alla radio nel mio posto di comando in Normandia, nel 1944, e che parlava di un solo mondo”.

Quando giunse al numero 10 di Downing Street, il più riservato degli uomini politici andò nel soggiorno, si sedette al clavicordo e diede libero sfogo alle sue emozioni suonando il primo preludio e fuga per clavicembalo di Bach. Dopo dieci anni di lotta, aveva realizzato il suo sogno.

Ma solo quando la “voce calma e sommessa del clavicordo” smise di risuonare, Healt fu sopraffatto dalla felicità.

History – Dominic Sandbrook, autore del libro “State of Emergency: the Way We Were Britain. 1970-1974


mercoledì 22 giugno 2016

Schio, una strage dimenticata. Fino ad oggi.


06 Luglio 1945 - Schio, provincia di Vicenza

Una lieve brezza ha spazzato via l'afa. La guerra è finita da nove settimane. In via del Baratto, l'edificio delle carceri ha una grande portone in legno e inferriate alle finestre.

Di fronte alla prigione c'è l'Osteria dei Tre Morari, meta ambita di molti abitanti. Tra partite di scopa e quartini di vino anche i custodi del carcere passano lì il loro tempo libero. Sono le 20 e Giuseppe Pezzin, capo guardiano, si accinge a salutare gli amici e a rincasare nell'alloggio al primo piano.

Due giovanotti armati lo fermano sull'uscio :"Vieni con noi" ingiungono i due. "Non ho fatto niente", replica il Pezzin pensando a qualcosa di spiacevole. "Vieni con noi e basta". Giuseppe li segue.

Fa ancora chiaro, e verso occidente il cielo è di un rosso vivo. Ai due accompagnatori si aggiunge una terza persona che intima al Pezzin: "Dacci le chiavi del carcere". Il Pezzin obbedisce. Ha paura per sé e per la sua famiglia. Arrivati alla prigione i tre si infilano nell'androne. Da un angolo sbuca un altro gruppo di uomini armati. Alcuni sono mascherati, entrano e si avviano nell'ufficio matricola per visionare l'elenco dei detenuti. La prigione di Schio ha due cameroni di 10 metri per 6. Uno al pianterreno e uno al primo piano.

Di regola i detenuti sono pochi. Ubriachi molesti o ladruncoli, ma in questi giorni ci sono 99 persone. Non tutti sono fascisti. Gli uomini lo sanno. Ma importa poco. I prigionieri vengono ammassati alle pareti dei due cameroni. E' circa mezzanotte. Il Pezzin, rinchiuso in un angolo della prigione con la sua famiglia, sente le raffiche. Quattro minuti durano. A terra un groviglio di corpi, uomini, donne e giovani. Un vero carnaio.

Quegli uomini hanno appena massacrato 54 persone, tra cui 14 donne (una ha 17 anni) e 7 minori.

Quello che trovarono i soccorritori fu qualcosa d’indescrivibile. Dalle scale della prigione un fiume di sangue aveva raggiunto la strada. Incrociando gli assassini in ritirata furono costretti a gettare a terra le barelle per non essere malmenati. Quando entrarono videro qualcosa di terrificante. In un groviglio spaventoso di corpi si udivano i lamenti di alcuni feriti, le urla di disperazione di chi era sopravvissuto a un loro caro. Come Umberto Perazzolo e il maestro elementare Rino Tadiello, abbracciati ai cadaveri dei loro figli.

Perchè Schio? In quei giorni si era diffusa la notizia che 13 cittadini di Schio erano morti a Mauthausen. La voce che girava era: "dobbiamo vendicarli". Il popolo chiedeva vendetta.

Il mandante si chiamava Gino Piva. Il suo braccio destro Ruggero Maltauro. Naturalmente fascisti anche loro fino 25 luglio del 1943. Antifascisti dal giorno dopo. Maltauro addirittura membro della polizia ausiliaria.

Non ci volle molto a convincere qualcuno che bisognava vendicarsi. All'inizio pensarono pure di far saltare il carcere con tutti dentro.

“Quella notte erano in giro per Schio, uno con la fidanzata, uno alle giostre, altri nelle balere, al caffè, a bighellonare in attesa di far tardi, da bravi vitelloni locali”
La mattina dopo per Schio a vantarsi di quello che avevano fatto. Nessun pentimento o rimorso. 

L'autorità militare alleata, che aveva poteri sovrani in Italia, avocò a sè le indagini e accertò che la strage era stata decisa da elementi fanatici e individuarono i 15 responsabili. 

Accertarono che delle 54 vittime solo 27 avevano aderito (solo simpatizzanti) alla Repubblica di Salò. Altri erano lì per reati comuni o in attesa di giudizio.

Come andò a finire?

Vi furono subito arresti e confessioni, pure condanne, ma per soli pesci piccoli. I maggiori responsabili se la cavarono fuggendo all’estero.

#MdT 13/09/1945 Questa la prima sentenza, tra cui spicca la condanna a morte per Bortolaso Valentino. 




Leggila integralmente >>>>>

#MdT 21/12/1945 - Le condanne a morte dei responsabili dell'eccidio di Schio (tra cui Valentino Bortolaso) sono commutate in ergastolo.


Poi la solita conclusione all’italiana, gli indulti, le amnistie, infine tutti a casa, dimenticati.
Tutto dimenticato. Fino ad oggi...


#MdT 21/06/2016 - Valentino Bortolaso, uno dei responsabili dell'eccidio di Schio viene insignito dal prefetto di Vicenza della “medaglia d’oro della Resistenza”. 

Giovanni Bortolaso, eroe della Liberazione.
L’uomo (arrestato per l'eccidio) che il 22 Agosto 1945 aveva rilasciato questa deposizione:


“Io diedi l’ordine a quelli che rimasero giù di sparare quando avessero sentito sparare di sopra. Abbiamo tolto gli 8 o 9 uomini prigionieri delle due piccole celle del primo piano e li abbiamo portati al secondo piano dove c’erano le donne detenute, mettendoli davanti ad esse. Due donne, detenute comuni erano state tolte dal gruppo delle detenute e portate fuori, ma non so dove. Incominciammo a sparare verso le 12 e ¼. I primi colpi vennero sparati al piano superiore. Io avevo due caricatori con circa 70 colpi in tutto.Quando pensammo che tutti fossero morti, siamo usciti tutti assieme dalle prigioni, poi ognuno se ne andò per conto suo”.

Leggi l’intera deposizione >>>>>>

La notte tra il 6 e il 7 luglio 1945, nove settimane dopo la fine della guerra, rimasero sul pavimento del carcere 54 corpi . Uccisi solo per vendetta. Una vendetta atroce, inutile.

Che non meritava certo una medaglia d’oro. Ieri, come oggi.

Johannes Bückler


giovedì 2 giugno 2016

Paolo Savona. Chi è costui?


Paolo Savona? “Un grande studioso e un bravo parlatore, ma un pessimo organizzatore”, parole di Franco Mattei (direttore generale uscente di Confindustria nel 1976 quando arrivò Savona). Non so sia vera la definizione di pessimo organizzatore, sicuramente uno litigioso, quello sì. Il suo carattere difficile si è scontrato un po’ con tutti.
Da Romano Prodi quando era all’Iri, a Franco Bernabè quando era all’Enel. Litigò pure con Antonio Cassese sulla privatizzazione dell’Enel e litigò pure con Francesco Saja. Nell’ottobre del 1983 disse “basta litigare”. Se non mi date ragione mi dimetto. Naturalmente non si dimise. Il suo punto di riferimento era Giorgio La Malfa, amico personale, ma non disdegnava frequentare democristiani.

Negli anni ’80 guai a chiamarlo “politico”, lui era solo un tecnico al servizio della politica. Era stato Carli nel 1976 a portarlo con sé. Un nome che oggi farebbe inorridire i grillini perché il suo attaccamento alle poltrone è proverbiale.

Era alla presidenza del Credito industriale sardo nel 1982 quando fu nominato Segretario generale della Programmazione con La Malfa ministro del Bilancio. Gli fecero notare che la legge non consentiva la compatibilità del nuovo incarico con quello precedente. Lui alzò le spalle e si tenne i due incarichi.

Nella BNL (nel 1992) fece anche peggio. Una volta nominato direttore generale e poi amministratore delegato gli fecero notare due cose. Primo doveva essere assunto  dalla BNL e poi successivamente  dimettersi da tutti gli altri incarichi per incompatibilità (secondo la legge). Lui ci pensò un attimo e trovò la soluzione. Farò il direttore generale della BNL non c'è bisogno di assumermi, mi pagate lo stesso e così non lascio tutti gli altri incarichi. Forte. Non durò molto nemmeno lì. Alla prima litigata con Cantoni (comando io comandi tu) si guardò intorno e trovò un incarico che non era incompatibile con tutti gli altri incarichi. E andò alla presidenza del Fondo interbancario di garanzia.

E' ospite fisso al Bilderberg. A suo tempo era solito andarci con l'amico Gianni Agnelli usando il Concorde.

Giudicarlo è impossibile. L'unica cosa certa che  da vero “liberista”, come si definiva, era un pochetto ondivago.
Le sue idee sulle privatizzazioni cambiavano continuamente e a volte incomprensibilmente. Come quando si parlò di privatizzare la Stet. W la privatizzazione, ma solo alle famiglie Pirelli e Agnelli, disse, altrimenti niente.

Era talmente liberista che quando il presidente dell' Eni Franco Bernabé decise di chiudere gli stabilimenti Enichem di Crotone perché in perdita e improduttivi, lui si oppose apertamente.

Cassese pensava alla riorganizzazione dell' ente di vigilanza sulle assicurazioni, l' Isvap? E lui era contrario. Un liberista che nessuno capiva.

Quando l’Antritrus definì il progetto per la privatizzazione dell' Enel un autentico "monopolio privato" di chi era il progetto? Sempre suo. Del liberista Paolo Savona.

Un tipetto che guai a criticare il suo lavoro o le sue idee. Quando si dimise dopo l’ennesima litigata con Prodi sulle privatizzazioni giurò che non sarebbe mai più tornato alla politica. Qualche incarico non politico quello sì però (te pareva).

Come tutti quelli che invecchiano male e non riescono a sopportare l'oblio, da alcuni anni persegue il filone che riesce a dare anche a dei semplici sconosciuti economisti visibilità e soldi. Parlo dell'antieuropeismo. Si vanta infatti di aver scoperto un famigerato "Piano Funk" (ministro dell'economia nazista) che prevede una Germania egemone dove tutte le monete si devono comportare come il marco tedesco. Un complotto tipo "Piano Kalergi" per intenderci. Che dire. Walter Funk era un semplice esecutore (aveva sostituito Hjalmar Schacht poco malleabile a detta di Hermann Goring) e può darsi abbia scritto cose del genere a quei tempi. Ma credere ai complotti, via. Siamo seri.
E poi, un membro del Bilderberg che crede ai complotti? Fa ridere dai.

Johannes Bückler