giovedì 28 gennaio 2016

Perchè è difficile licenziare i furbi.


Se sia meglio la gestione pubblica di beni o servizi o quella privata è un dibattito che va avanti da anni. Di là da pregiudizi ideologici, che di certo non aiutano, difficile dare una risposta certa in base a dati incontrovertibili.
Personalmente continuo a ritenere che il privato non sia sempre bello a prescindere rispetto al pubblico. Anzi, il pubblico potrebbe avere meno svantaggi in determinati settori, rispetto al privato, soprattutto in termini di economie di scala.
Il nostro Paese ha mostrato, in tema di privatizzazioni, il peggio del peggio.
Detto questo, non passa giorno senza che le cronache non raccontino di dipendenti pubblici che, una volta timbrato il cartellino, se ne vanno a zonzo per i fatti propri. Ultime, in ordine di tempo, due dipendenti del comune di Villongo. Sulle due impiegate, assenti durante l’orario di lavoro, ma “presenti” sul registro delle presenze, la magistratura chiarirà presto ogni cosa. L'ipotesi di reato è truffa ai danni dello Stato, falso e accesso abusivo ai sistemi informatici.
Un plauso va all’Amministrazione che con il suo esposto ha portato alla ribalta (se confermato) l’ennesimo caso di un malcostume, quello dell’assenteismo del pubblico impiego, che purtroppo non accenna a diminuire. Un vizio che ha origini lontane, che non ha mai avuto barriere geografiche, persino indipendenti dalla dimensione dell’amministrazione e diffuso sia a livello locale che centrale. I dati del ministero della Pubblica amministrazione ci dicono che sono circa settemila procedimenti disciplinari avviati ogni anno, ma solo 200 terminano con il licenziamento dei colpevoli.
Una percentuale insignificante, non sempre dovuta alla farraginosità delle procedure, in quanto la “Riforma Brunetta (D.lgs. n. 150/2009) era abbastanza chiara in materia di licenziamenti. Di assurdo c'era solo la norma che imponeva al dirigente di rispondere personalmente del danno erariale in caso di reintegro del dipendente. Norma che ha rallentato e di molto il percorso disciplinare.
Ora il governo, con la modifica dell’art. 55-quater del D. lgs. 165/2001, cerca di incidere ulteriormente sulla falsa attestazione della presenza in servizio compiuta dal dipendente pubblico. Chi sarà trovato in flagranza di reato (le prove dovranno essere schiaccianti) sarà sospeso entro quarantotto ore, dal servizio e dalla retribuzione, per poi vedersi avviata la procedura di licenziamento; procedura che dovrà concludersi entro trenta giorni.
Una delle novità è che il dirigente ora sarà obbligato a prendere questi provvedimenti, pena il suo stesso licenziamento in caso non proceda con il provvedimento disciplinare.
Speriamo che le nuove norme riescano a contenere un fenomeno che provoca non solo un peggioramento della qualità dei servizi resi a noi cittadini, con conseguente aumento dei costi, ma uno svilimento di un’immagine, quella del pubblico impiego che, nonostante il luogo comune, può contare sulla correttezza e professionalità della maggior parte dei propri dipendenti.

Johannes Bückler

27 Febbraio 2016 - Corriere della Sera - Bergamo - Leggi qui >>>>>

mercoledì 27 gennaio 2016

Il giorno della memoria. Un bergamasco nel campo di Buchenwald.


Il primo fu Dachau, 22 marzo 1933, su iniziativa dell’ex venditore di polli Heinrich Himmler. (In realtà, a Waldtrudering, Himmler non aveva solo polli, ma anche tacchini, conigli e persino un maiale. Aveva lasciato l’attività alla moglie quando era entrato a far parte delle SS nel 1929).

La decisione di aprire il primo campo di internamento per prigionieri politici venne presa quaranta giorni dopo la presa del potere di Hitler. A Dachau seguirono altri campi. Lichtenburg, Sachsenhausen, Buchenwald, Mauthausen e altri. In totale diciotto. Attorno ai 18 campi base vennero organizzati altri 1080 sottocampi di lavoro che traevano la materia prima (i prigionieri) dai campi base, e ve la rimandavano quando era inservibile, per l’eliminazione. Inizialmente i campi avevano formalmente finalità differenziate ed erano suddivisi in 4 principali categorie.

TIPO UNO: si ponevano come scopo la rieducazione dei prigionieri e miravano alla formazione di una ideologia che fosse in sintonia con quella nazista.

TIPO DUE: anche questi lager si prefiggevano gli scopi di quelli del primo tipo, ma con minor speranza di successo; erano quindi riservati ai "criminali" ritenuti più pericolosi. Da questi lager era possibile, in alcuni casi, sperare di poter uscire.

TIPO TRE: si era assegnati ai campi di questa categoria quando il ritorno alla vita civile veniva ritenuto indesiderato. Non esistevano speranze. Il prigioniero veniva sfruttato nelle sue possibilità di lavoro, fino all'annientamento per indigenza e fatica.

TIPO QUATTRO: erano lager di puro sterminio, dove non si richiedeva più alcuna prestazione lavorativa ai prigionieri, i quali, nel più breve tempo possibile, dopo l'arrivo; venivano uccisi.

Durante la guerra divennero tutti campi di eliminazione. Gestori dei campi erano le SS; gli utili provenienti dal lavoro e dalle requisizioni dei beni dei prigionieri erano di loro proprietà.

Ma cosa avveniva nei campi? 

22 marzo 1933 

A costruire il campo a Dachau ci sono gli antinazisti tedeschi qui deportati che stanno costruendo i muri, le baracche, alzano i reticolati. Oltre al cancello, per i nuovi arrivati, sfiniti ed inebetiti dal viaggio, comincia, in un rituale allucinante, sistematico e preordinato, l'annullamento della volontà, la spersonalizzazione. Vengono controllati, derubati di tutto ciò che hanno portato con sè; non devono possedere nulla che possa in qualche modo ricordare loro il tempo in cui sono stati uomini, nulla tranne il proprio corpo che non è più loro, svuotato come è di ogni coscienza. Si incomincia con una rozza depilazione, disinfezione con la creolina, la doccia ora caldissima ora gelida, quindi la vestizione, l'assegnazione del numero e del simbolo relativo alla propria condizione.
Vita, disciplina, violenza e morte nei campi.
La sveglia prima dell'alba, quindi l'appello numerico dei prigionieri sul piazzale centrale, con qualunque tempo. Poi il lavoro forzato per undici­, dodici ore senza un attimo di sosta, senza tregua, spesso a mani nude o con attrezzi rudimentali. Sull'ingresso di tutti i campi si può ancora leggere la scritta: "Arbeit macht frei", il lavoro rende liberi. Alla sera ancora un appello numerico sul piazzale centrale. A volte si protrae per ore ed ore, a volte intere notti, con la pioggia, la neve, il gelo, con custodi pronti a colpire chi si muove o si sposta o anche senza una ragione, perchè si è nulla, meno che bestie.

E poi le punizioni; alcune vengono eseguite all'aperto sul piazzale centrale davanti ai prigionieri, altre si svolgono in speciali luoghi di sofferenza e in modi e forme che solo l'inesauribile fantasia delle SS può inventare... Dalla privazione del vitto, pur continuando in pieno il lavoro, alla detenzione nell'oscurità di celle fredde e piccole, senza cibo, né indumenti per molti giorni, al rimanere in piedi per giorni e notti intere con qualsiasi tempo; alle marce in ginocchio, nel fango, nella polvere, nella neve; alla tortura, alla fustigazione, feroce e pubblica; alla sospensione al palo per i polsi con le mani legate dietro la schiena che porta in pochi minuti alla perdita di coscienza e al deliquio; agli esperimenti scientifici su cavie umane dal vivo per misurare la capacità di resistenza alla morte procurata Gli esperimenti dei medici nazisti sono espressioni di puro sadismo, nulla può trarre la scienza dall'impiego degli internati e dei prigionieri come cavie umane.

Una storia di orrori di cui la professione medica tedesca non può certo andarne fiera; da rilevare che questa opera criminale era nota a migliaia dei principali medici del Reich; nemmeno uno, per quanto si sa dai documenti, innalzò la benchè minima protesta pubblica. 

Ma su tutto sempre incombente, la fame; con essa ogni coraggio scompare, ogni ammutinamento, ogni volontà di ribellione diventa impossibile, ogni movimento costa fatica. Dopo pochi mesi la denutrizione porta alla dissenteria, alla allucinazione, all'inerzia, alla rassegnazione di lasciarsi morire, alla pazzia. E’ possibile sopravvivere? La macchina del lager non prevede la possibilità che qualcuno esca vivo da questi luoghi; la fame, il lavoro coatto, le punizioni, riescono ad eliminare un numero enorme di deportati già dai primissimi giorni di prigionia.
Anche la disperazione uccide; molti si procurano la morte lanciandosi sui reticolati, o buttandosi, (come avverrà a Mauthausen), da uno strapiombo sito sulla carreggiata che porta alla cava di pietre. Resistono più a lungo coloro che hanno o hanno avuto uno scopo, un'idea capace di riempire il cuore e la mente: soprattutto i politici, i religiosi, gli uomini di fede... Per una minor resa nel lavoro bisogna lasciare il posto ai nuovi arrivi, a nuovi infelici che indossano le stesse casacche, gli stessi zoccoli, perchè "la costruzione del Reich non conoscesse soste né ritardi". Di quanti avessero ormai esaurito ogni energia bisognava che non restasse traccia. L'annullamento, iniziato al momento dell'ingresso al campo, trovava la sua coerente conclusione nelle camere a gas e nei forni crematori. Ma se le SS erano i sapienti registi di questo criminale disegno di violenza e di morte, altri, i kapò ne erano i più diretti e spietati esecutori.
Nelle baracche, nei posti di lavoro, vige una gerarchia tra i prigionieri, in fondo alla quale stanno gli ebrei destinati alla eliminazione immediata, e poi gli italiani e i russi, i traditori, ai quali vengono affidati i compiti più sporchi, più umilianti e massacranti; per questi schiavi, per un nonnulla, la punizione è immediata e terribile, talvolta estrema; la disciplina è in gran parte affidata ad elementi scelti fra gli stessi detenuti, in una sorta di selezione alla rovescia; sono i delinquenti comuni, i criminali, i tirati fuori dalle galere e dagli ergastoli che vengono armati di scudiscio e di un potere illimitato di vita e di morte sugli altri, in cambio di una obbedienza cieca e di una sopravvivenza più comoda: sono i kapò, gli aiutanti, il braccio odiato, temuto di cui le SS si servono fin dentro le baracche, perchè l'asservimento sia completo. Schiavi che brutalizzavano altri schiavi. Sembrerebbe impossibile, impensabile, che degli internati diventassero carnefici dei loro stessi compagni di sventura.
"Allora il vero nemico" - dice un ex internato di Dachau - "è soprattutto dentro di noi e ci sconfiggerà se, per un pezzo di pane in più o una staffilata in meno, non sapremo resistere, e ci faremo ingranaggio della abietta macchina nazista".

Un bergamasco nel campo 

Bonifacio RAVASIO, nato ad Alzano Lombardo il 24/5/1927 
Professione prima della cattura: impiegato alla STIPEL 
BUCHENWALD: Matricola 33843 

Questo il suo racconto: 

Ero impiegato alla SIP (ex STIPEL) di Bergamo. Mio nonno era un puro socialista. Per la sua idea fu confinato e più volte percosso ed umiliato. La mia famiglia dai fascisti fu martoriata.

Io sono cresciuto antifascista (per giuste ragioni).

Nella Repubblica di Salò appena costituita, collaborai con i patrioti nello svolgere propaganda e distribuendo manifesti. Alla STIPEL la maggior parte dei dirigenti era fascista ed hanno contribuito a peggiorare la mia situazione.
Ricercato dai repubblichini, il 22 aprile 1944 fuggii fino a Tarcento (Udine), da conoscenti.
Durante un rastrellamento fui fermato dalla SS tedesca e venni rinchiuso nelle carceri mandamentali del luogo. Ben presto seppero che ero ricercato. Subii interrogatori e ben si conoscevano i sistemi della Gestapo. Il 30 aprile 1944 mi trasferirono nelle carceri di Udine in una cella 4 metri per 4.

Per terra stesero paglia (come nelle stalle) ed eravamo in 26 prigionieri politici. Per la maggior parte di essi ricordo ancor oggi i nomi. Il 15 luglio, caricato sui carri bestiame, fui portato nel campo di sterminio di Buchenwald, con il numero 33843, che fu il mio nome per tutto il periodo. Questo numero mi fu tatuato persino sul braccio sinistro e sul fianco sinistro del corpo.

Fame, maltrattamenti, impiccagioni, il forno crematorio ogni giorno in funzione: si sentiva odore di carne umana bruciata. Ma si moriva anche di sfinimento, deperimento organico. So che facevano esperimenti e sentivo questo anche su di me. Non sono mai tornato quello che ero prima.

Il 6 agosto 1944 c'è stato il bombardamento del campo di Buchenwald da parte degli americani. In quella situazione è morta la principessa Mafalda di Savoia che però non stava nel campo con noi, che era maschile, ma in una delle baracche esterne. Io l'ho vista dopo morta: su un bancone di marmo. Ci hanno svegliati quella notte per farci vedere la nostra principessa morta. Ricordo l'episodio di Cachi, il socialista: è stato impiccato, ma quando è stato ucciso io non lo sapevo. L'ho saputo più tardi. E un altro Adobati, anche lui impiccato.

C'erano la camere a gas e gli ebrei erano eliminati lì dentro. Quelli a sangue misto resistevano di più. Saremo passati in 100.000 a Buchenwald, vedevo arrivare le tradotte. Nelle baracche c'erano 4 file di castelli a due piani. Eravamo in 1200 per baracca che era circondata di filo spinato con la corrente e garitte con mitragliatrici. Nessuno poteva scappare da lì. Da Buchenwald credo che nessuno sia riuscito a fuggire. Quando c'è stato il bombardamento che ha divelto i reticolati qualcuno forse ce l'ha fatta. Ma di fughe non se ne parlava. Si parla di ribellione negli ultimi giorni e che i detenuti si siano liberati, ma questo è stato possibile solo perché le guardie sono fuggite, ma le SS tennero duro fino all'ultimo momento.

C'erano misure tali che nessuno avrebbe potuto superare con un tentativo di fuga. Dopo due lunghissimi mesi, augurandomi solo la morte, mi trasferirono ad Oshenleben (Maddenburgo), campo di concentramento peggio di Buchenwald. Eravamo in duemila ed ogni mese ne rimpiazzavano in media 200 ed eravamo sempre in duemila. Lavoravamo in una miniera di sale 600 metri sotto terra, posta nelle vicinanze del campo. Ho lavorato lì 7-8 mesi. Si costruivano gli aerei. Sfiniti, fame, sporcizia ecc., quelli che non riuscivano a camminare o ad alzarsi dalle cuccette (chiamiamole così) venivano fucilati.

Alla domenica c'era lo "spettacolo" delle impiccagioni e le torture erano sadismo. Ho assistito ad impiccagioni di prigionieri che avevano rotto il manico della pala o del piccone e ritenuti sabotatori. Sono stati lasciati morti per tre giorni legati ai pali perché se ne prendesse esempio.
In una galleria trovarono una guardia morta. Il giorno seguente presero 40 di noi, li caricarono su di un carro agricolo e li portarono fuori dal campo. Dopo un'ora il carro tornò con 40 cadaveri e colava sangue da tutte le parti. Per fortuna c'erano alcuni internati militari italiani che mi davano qualche rapa. Questo mi ha salvato in miniera, dove ci davano solo una brodaglia con i torsoli delle verze. Inutile dilungarsi su questi casi, potrei raccontarne cento. Nell'aprile 1945 ci incolonnarono, il fronte americano ormai era vicino, 3 giorni a piedi, senza mangiare, qualche ora per riposarsi sul ciglio delle strade. Lungo il cammino chi cadeva o non ce la faceva più veniva fucilato.

Noi stessi li seppellivamo sotto pochi centimetri di terra. Arrivammo in una città, non ricordo il nome, ci caricarono su due barconi, che usavano per trasporto merci, ci rinchiusero dentro, stretti come sardine, percorrendo il fiume Elba. Il giorno seguente, dopo 4 giorni di assoluto digiuno, ci diedero 2 cucchiai di pasta cruda a testa. Il giorno 6, sollevando un'asse di questo barcone, una guardia ci gettò delle fetta di pane e, mancandone una, lo facemmo presente.

Come risposta estrasse la pistola uccidendo uno di noi e dicendo che così le razioni ora erano giuste.

Nel nostro barcone avevamo 12 morti di deperimento, odori di putrefazione, non ci facevano mai scendere neanche per quei pochi bisogni: 12 morti, non si sono mai preoccupati di levarceli. Ricordo il 7 maggio 1945, (il 6 c'era stato il bombardamento di Dresda) e ho saputo dopo che hanno sparato ad un prigioniero che ha tentato di buttarsi giù dal barcone ed il giorno dopo la guerra era finita. I partigiani tedeschi hanno resistito fino all'ultimo ed anche dopo contro russi ed americani.

8 maggio 1945.

Seppi dopo che attraversammo Dresda prima e ci trovavamo a Lovosice a 30 km da Praga. Sulle due sponde si affrontavano i due eserciti: russo e tedesco. I due barconi in mezzo al fiume Elba furono colpiti. Solo i russi rendendosi conto che era pieno di prigionieri riuscirono a trarne in salvo poche centinaia. Ci hanno liberato i russi.
Mi svegliai il 10 maggio dopo due giorni di coma. Partii per casa il 30 giugno 1945 con croce rosse russe poi americane. Un ufficiale americano mi ha detto: "Hai la fortuna di andare a casa, non raccontare mai quello che hai visto, perché ti prenderebbero per pazzo".

Da Bolzano ripartii con croce rossa pontificia. I miei genitori si misero a piangere insistendo che non ero loro figlio. Pesavo 37 chili, rapato a zero e con cicatrici in testa. Fui curato per oltre tre mesi. La mia salute non è più tornata normale. Non dimenticherò mai quanto ho visto e subito. Finché vivrò ai miei figli e nipoti ho insegnato e insegnerò ad odiare ogni forma di dittatura e di lottare sempre per la libertà. Ho descritto solo in minima parte le crudeltà naziste e fasciste nel campo di Buchenwald e nelle carceri di Udine.

Noi non ci riconoscevamo nemmeno, mia madre non mi riconosceva. Però la cosa più ferita è la testa. Non ho più avuto la testa di prima. Io ho veramente assistito a quelle crudeltà e quando se ne parla e vengono rievocate sto male. I fatti sono tanti e terribili. E non abbiamo avuto gran riconoscimenti. Io non ero nemmeno in grado di riprendere il lavoro alla STIPEL.

Ho poi trovato lavoro come esattore e come magazziniere alla FIAT, ma non sono stato più quello di prima.

Non so gli altri, ma per me i danni sono stati irrecuperabili: gli spaventi, le botte prese anche senza alcun motivo, la deportazione stessa su quella specie di vagone bestiame ...
Gli internati militari non potevano parlare con noi, ma sotto terra nelle saline ci si incontrava. C'erano Musatti, gli Ala ..., poi Faldelli ecc. e questi sono tornati dicendo che ero finito perché loro sono rimasti lì mentre noi abbiamo camminato tre giorni senza mangiare e questa è stata l'ultima botta. Quelli che cadevano venivano uccisi.
E così i miei, quando sono arrivato, non credevano ai loro occhi.
Ero in uno stato tremendo: mi portavano in giro in una carrozzina, non mi reggevo più in piedi. Io devo aver subito un trauma cranico, poiché ne ho dei postumi riscontrati anche dai professori. Infatti di due o tre mesi della vita al campo di concentramento non ricordo più nulla. Ho sempre un ronzio nella testa e non riesco a capire cosa sia. Dovrei fare la TAC.

Tratto da BERGAMASCHI NEI CAMPI KZ (Testimonianze) Ed. A.N.E.D.

Johannes Bückler

venerdì 22 gennaio 2016

La lotta contro la frode fiscale e le prediche inutili.


«La frode fiscale non potrà essere davvero considerata alla stregua degli altri reati finché le leggi tributarie rimarranno vessatorie e pesantissime e finché le sottili arti della frode rimarranno l’unica arma di difesa del contribuente contro le esorbitanze del fisco». E’ una frase di Luigi Einaudi che gira spesso in rete per giustificare l’evasione fiscale. Mai questa, sempre dello stesso Einaudi: “E' nobile intendimento per fermo quello di impedire che alcuno si sottragga al suo debito tributario, in quanto la frode degli uni, immiserendo l'erario, lo costringe a gravare la mano su quelli che frodare non possono”. Due frasi che si possono trovare nello stesso articolo, apparso sul Corriere della Sera il 22 settembre 1907 che potete leggere di seguito o direttamente qua >>>>>.

In realtà Einaudi non giustificava l’evasione fiscale (sempre esistita, in misura sostanziosa, anche con pressioni fiscali nettamente inferiori) almeno come la giustifica qualcuno. Da vecchio e buon liberale era sicuramente contro l’evasione, anche se era non era dispiaciuto di ciò che chiamava “la vivace resistenza dei privati” nei confronti delle “altissime aliquote”.

La lotta contro la frode fiscale (Corriere della Sera, 22 settembre 1907) 

Che i contribuenti combattano una diuturna, incessante battaglia contro il fisco è cosa risaputa, ed è nella coscienza di tutti che la frode fiscale non potrà essere davvero considerata alla stregua degli altri reati finchè le leggi tributarie rimarranno, quali sono, vessatorie e pesantissime e finché le sottili arti della frode rimarranno l'unica arma di difesa del contribuente contro le esorbitanze del fisco.

L'amministrazione finanziaria che deve dispiegare l'accortezza pratica maggiore, e nello stesso tempo dar prova della conoscenza più larga delle discipline giuridiche nel combattere la frode fiscale, è senza dubbio la direzione generale del demanio e delle tasse sugli affari.
Le leggi sulle tasse di registro e bollo sono un istrumento mirabile di complicazioni e di sottigliezze, foggiato a poco a poco e ridotto a perfezione viemaggiore sotto la spinta delle frodi immaginate dal contribuente per sottrarre l'aver suo al dovere tributario. E' questo il campo senza dubbio più difficile del diritto tributario, poiché con le tasse sugli affari voglionsi colpire una moltitudine stragrande di atti e di negozi giuridici e la misura della tassa dipende in gran parte dall'interpretazione che vien data della natura dell'atto compiuto. Tanto grave è la pressione fiscale, che avvocati e notai aguzzano tuttodì l'ingegno per dare agli atti più consueti di compravendita, donazione, appalto, ecc, le forme più complicate ed artifiziose quando in tal modo si riesce a pagare una tassa minore. Ed alla loro volta gli agenti fiscali devono usare la maggiore accortezza per mettere a nudo il nocciolo dell'atto compiuto, spogliandolo della corteccia posticcia, allo scopo di attribuire allo Stato la somma di tributo che in realtà gli è dovuta. Che in questa battaglia, nella quale si consumano tante sottili intelligenze e tanti capitali che meglio sarebbero adoperati alle opere della produzione, lo Stato, burocratico ed impacciato, rimanga sempre soccombente, non si potrebbe affermare certamente.

L'ultima relazione sull’amministrazione del demanio e delle tasse sugli affari per l'esercizio 1905-906, pubblicata, or non è molto, a cura del direttore generale comm. Ghino Fucini, prova la vigile cura e la sottile penetrazione con cui la burocrazia veglia con fortuna alla tutela degli interessi fiscali. Con troppa fortuna, diranno i contribuenti, sentendo che le tasse sugli affari rendevano, per accertamenti compiuti nell'anno, 169.615.499 lire nel 1884-1885, e resero 190.751.355 lire nel 1894-95, 214.338.315 lire nel 1904-905 e 239.188.984 lire nel 1905-906. Confortante e mai più veduto è stato in special modo l'aumento nel reddito delle tasse di registro, che in un anno solo balzarono da 64.672.494 a 73.959.536 lire, con un aumento di 9.287.042 lire di cui 6 milioni circa, dovuti alle trasmissioni di immobili a titolo oneroso, 445 mila lire alle trasmissioni di mobili e merci a titolo oneroso, lire 1.622.271 agli appalti per costruzioni, somministrazioni, ecc., 460 mila lire alle locazioni di case, concessioni di diritti d'acqua e locazioni d'opere.

Ma l'amministrazione si rammarica del crescere continuo delle leggi le quali concedono privilegi ed immunità ad industrie e regioni speciali, come quelle a favore degli zolfi, del credito agrario siculo, della Calabria, delle provincie meridionali, della Sicilia e della Sardegna. Non che quelle immunità siano da condannarsi; ma esse sono, nella opinione della finanza, concesse in maniera oscura ed incompleta, sicché all'applicazione non danno tutti quel risultati che se ne attendevano, o vanno oltre il pensiero dei proponenti, dando luogo a frodi da parte di chi il legislatore non voleva beneficare. L'amministrazione non nasconde le sue simpatie per quegli sgravi che vengono concessi generalmente a tutti coloro i quali si trovano nella medesima situazione. Esempio la legge 22 gennaio 1902 la quale riduceva alla metà l'enorme tassa del 4.80 per cento sui trasferimenti immobiliari a titolo oneroso pel prezzo non superiore a L. 200 ed al due terzi la tassa per i trasferimenti tra L. 200 e L. 400. Temevasi che si aprisse con ciò l'adito alle frodi, e cioè che molte contrattazioni per vendite superiori a tali cifre dovessero farsi apparire stipulate per minor prezzo allo scopo di profittare del beneficio della riduzione.

Ma non fu così, perché i trasferimenti inferiori al valore di 400 lire aumentarono appena da 201.123 nel 1900-901 a 239.783 nel 1905-906, aumento naturale e che avrebbe dovuto essere ancor maggiore se la riduzione delle tasse di registro fosse stata accompagnata da una giusta diminuzione delle tasse di bollo ed ipotecarie e dei diritti catastali e notarili, i quali essendo stabiliti in misura fissa e graduale crescono moltissimo il costo dei trasferimenti della piccola proprietà. E sono questi piccoli trasferimenti i più numerosi, se si pensa che nel 1905-906 accanto a 239.783 trasferimenti per atto civile e 3625 per atto giudiziario inferiori in valore a L. 400, vi sono stati altri 3568 trasferimenti inferiori a L. 400 che non poterono godere dello sgravio e 90.286 trasferimenti di valore tra L. 400 e 1000. Quanto più cresce il valore, tanto più diminuisce il numero delle trasmissioni: essendo stati 71.814 i trasferimenti fra 1000 e 5000 lire, 11.902 quelli fra 5000 e 10.000 lire, 9276 quelli fra 10.000 e 50.000 lire, 1138 quelli fra 50 e 100 mila lire e finalmente 801 soltanto quelli superiori a 100.000 lire.

Dalla relazione si scorge che la Finanza, soddisfatta del buon esito dei primi assaggi, non sarebbe aliena dal concedere riduzioni di aliquote per i trasferimenti sino a 1000 lire e dal rafforzarli con sgravi sui diritti fissi o graduali di bollo, d'ipoteca, catastali o notarili. E sarebbe riforma utilissima che diminuirebbe in parte i gravami eccessivamente elevati che impediscono il movimento dei beni immobili ed incoraggerebbe la formazione della piccola proprietà, senza imporre quegli impacci burocratici soverchi che hanno annullato quasi i benefici della legge a favore delle case popolari. Per la paura di incoraggiare le frodi, si sono talmente circondati di precauzione i favori, che nel 1905-906 in appena 51 casi si applicarono le tasse ridotte di registro per le case economiche e popolari, soli 101 furono gli atti di locazione registrati con la tassa ridotta al quarto ed in soli 8 casi si applicò l'aliquota ridotta pei contratti di prestito stipulati per la costruzione delle case stesse. La trasmissione della ricchezza mobiliare è però quella che maggiormente angustia la Finanza per la facilità delle frodi e la difficoltà di scoprirle. Terre e case sono duramente colpite e tuttavia, poiché tutti le vedono, non riescono a sfuggire all'occhio del fisco, mentre invece il denaro, i titoli mobiliari e le merci possono assai più facilmente essere occultati.

L'aumento delle Società per azioni è cagione di letizia pel fisco, perché, se non è possibile di seguire i trasferimenti delle azioni da una persona ad un'altra a titolo oneroso o gratuito, si è trovata la maniera di colpire direttamente le Società all'atto della loro costituzione colla tassa di registro sui valori conferiti ed in seguito colla tassa di negoziazione stabilita nella misura dell'1,80 e 2.40 per mille sul valore delle azioni e delle obbligazioni emesse. Ambe le maniere di tasse dovevano dare un reddito crescente, poiché nel 1904-905 si costituirono nientemeno che 222 nuove Società per azioni e di fronte a 145 Società, che aumentarono il loro capitale, solo 37 lo diminuirono, cosicché il capitale complessivo delle Società italiane per azioni crebbe tra creazioni ed aumenti, di lire 582.590.519. Nel 1905-906 le nuove Società costituite furono 349, le Società che aumentarono il capitale furono 164 contro 23 che dovettero diminuirlo; è l'aumento del capitale in complesso fu di L. 613.791.950! Aumenti enormi che sarebbero parsi inverosimili alcuni anni or sono e che, sebbene in parte corrispondano a trasformazioni di vecchie aziende private, misero a ben dura prova la capacità di assorbimento del risparmio Italiano. Di questo aumento si giovò il fisco, perché nel breve periodo di un triennio, dal 1903-904 al 1905-906, il numero degli atti costitutivi di Società presentali alla registrazione crebbe da 2649 a 4113, mentre l'importo del valore tassato aumentava da 314 milioni a 1016 milioni e triplicava l'ammontare della tassa riscossa da 655 mila lire ad 1 milione e 756 mila lire.

Malgrado ciò, il fisco trova ragione di lagnanza perché le Società hanno la tendenza a costituirsi o a figurare di costituirsi quasi soltanto con l'apporto di numerario, che paga 5 lire pel primo migliaio di lire e 1 lira su ogni migliaio successivo, abbandonando le costituzioni con apporti di stabili e di mobili e merci che dovrebbero pagare la tassa del 4,80 e del 2,40 per cento. Da ciò la Finanza conclude che, se le aliquote del 4.80 e del 2.40 per cento sono evidentemente onerose, «appare troppo mite quella graduale per le Società che formano i loro capitali in denaro e che rappresentano il maggior numero». Qui la ossessione di combattere le frodi conduce i finanzieri a conclusioni pericolose. E' vero: nel 1905-906 su 1016 milioni di beni conferiti per la costituzione delle Società, 997 milioni erano numerario, ed appena 2.751.300 lire erano apporti, 11.325.934 lire mobili, merci e navi e 4.964.575 immobili. E" probabilissimo che la cifra del numerario sia stata artificialmente ingrossata, a scapito degli altri apporti, per pagare la tassa minore. Ma che vuol dir ciò? Che si debba aumentare la tassa per le Società che si costituiscono con apporti di numerario, solo per impedire che si facciano figurare come numerario quelli che invece sono immobili, mobili, merci o navi? Mai più. La tassa medesima graduale di 1 lira per mille è tutt'altro che tenue ove la si confronti con quelle che si pagano nei paesi dove le Società per azioni hanno avuto il maggiore sviluppo.

Tutti ricordano il suggestivo confronto, che si legge nelle Impressioni di un Yankee in Italia, pubblicate dal Garlanda, fra le somme ridicole che una Società per azioni deve pagare negli Stati Uniti per ottenere la carta di incorporazione e quelle elevatissime che essa dovrebbe pagare in Italia. La frode che ora ampiamente si esercita dovrebbe portare solo a questa riforma: trattare tutti i conferimenti alla stessa stregua più mite, tanto se sono di numerario, quanto se consistono in apporti di immobili o mobili. La riforma gioverebbe alla sincerità delle transazioni, renderebbe più chiari gli inventari, ed i bilanci sociali e non nuocerebbe gran fatto al fisco, che oggi si vede costretto dalla frode a concedere ciò che meglio sarebbe consentire volonterosamente. Tanto più che le Società per azioni, oltre a dare cospicuo reddito all'azienda delle imposte dirette, per la maggior facilità di esazione dell'imposta di ricchezza mobile in confronto agli industriali e commercianti privati, danno pure larghissimo contributo all'imposta sulla negoziazione delle azioni e delle obbligazioni. Questa imposta che rendeva L. 3.356.943 nel 1882 crebbe gradualmente, col crescere della fortuna italiana, il suo provento fino a L. 8.188.379 nel 1890-91. Venuta la crisi, anche essa diminuì di importanza scendendo sino a L. 6.671.910 nel 1897-98: ma in seguito tornò a salire sinché nel 1905-906 rese ben 12.288.364 lire. Neppure qui l'amministrazione è paga dei magnifici risultati ottenuti; essendovi “fondato motivo di ritenere che il cespite non renda tutto ciò che sarebbe legittimo sperare, tenuto conto delle migliorate condizioni del mercato di tutti i valori industriali e commerciali, e non possedendo la Finanza, allo stato della legislazione, armi che la pongano in grado di colpire tutto l'imponibile soggetto al tributo”. E' noto infatti che la imposta di negoziazione viene esatta ogni anno nella misura dell'1.80 per mille per i titoli nominativi e del 2.40 per mille per i titoli al portatore sulla base del valore effettivo risultante dalle quotazioni di Borsa o da certificati peritali. Ma vi sono molti titoli che, per essere posseduti da poche persone o per essere oramai intieramente e stabilmente collocati, non sono quotati in Borsa e per cui non è possibile ottenere il certificato peritale. La Finanza si lagna di essere costretta a tassare siffatti titoli sul valore nominale, anche quando notoriamente questo è di gran lunga inferiore al valore effettivo.

Altro argomento di lagnanze è l'imposta di successione. Non che la riforma del 1902 la quale rese l'imposta, già progressiva quanto ai gradi di parentela, progressiva altresì rispetto alle somme ereditate, abbia dato cattivi risultati. Anzi gli accertamenti furono nel 1905-906 di 41.546.008 lire e quindi superiori del 10,45 per cento a quelli del quinquennio dal 1896-97 al 1900-1901 che si erano tenuti a lire 37.613.756. ecc. Il malanno pm grave di cui si lagna la Finanza è la difficoltà di colpire i beni mobili. Nel 1905-906 infatti su un valore lordo ereditario di lire 1.097.088.044 ben lire 720.720.889 furono date dai terreni (486 milioni) e dai fabbricati (234 milioni), mentre i beni mobili davano appena 376.367.154 lire, ossia il 52.22 per cento dei primi. Gli occultamenti precipui avvengono per i titoli al portatore, che in troppo esigua misura vengono denunciati: rendita di Stato al portatore 20 milioni contro 57 di rendita nominativa, altri titoli al portatore 21 milioni contro 30 nominativi, che pur circolano in minor copia, depositi di denaro al portatore 7 milioni contro 23 milioni nominativi. Ma la Finanza non ha qui ragione di dolersi in tutto dopoché colla legge del 1902 la tassa di negoziazione è stata portata pei titoli al portatore al 2.40 0/00, mentre per i titoli nominativi rimaneva all’1.80 0.00 appunto per compensare la facilità maggiore con cui i titoli al portatore si sottraggono alla tassa di successione. E' contradditorio aumentare una tassa per compensare le frodi che avvengono in un'altra; e poi continuare a lagnarsi delle frodi, quando queste furono quasi legalizzate e compensate coll'avvenuto aumento della tassa di negoziazione! Di altre frodi ancora si lagna l'amministrazione in materia di tasse di successione.

Cosi si vuole che nella sola provincia di Genova sfuggano ogni anno alla tassa 15 milioni di lire di merci, cadute nelle eredità dei commercianti, con una perdita media per l'erario di 600.000 lire, a causa della impossibilità di trovare l'inventario o altro documento che ne provi la consistenza ed il valore. E si turba al pensiero del “pericolo, che sempre più si avanza, di vedere diminuire i proventi per tasse di successione col diffondersi dell'uso delle cassette forti di sicurezza presso istituti o banche, le quali cassette si prestano assai bene alle frodi, con l'offrire a persone facoltose il mezzo di tenere al sicuro valori ingenti, che poi non vengono denunciati né dagli eredi, né dai depositari, o di fare apparire tali valori come di altrui proprietà ed anche di creare passività fittizie, coprendo vere è proprie liberalità con dichiarazioni di pertinenza a persone che si vogliono beneficare. Tali dichiarazioni racchiuse nelle cassette, mentre sono conservate in modo da non costituire alcun pericolo pel dichiarante, finché rimane in vita, sono poi valide, come è stato risoluto, per l'esclusione delle presunte attività”.

Ancora si rammarica la Finanza perché, nelle eredità lasciate da un proprietario di navi aventi un valore di molti milioni, gli eredi, ove per loro fortuna manchino gli inventari con stima e le contrattazioni anteriori di non più di sei mesi, abbiano facoltà di denunciare le navi per poche migliaia di lire e la Finanza debba limitarsi a riscuotere la tassa di successione sopra l'inverosimile valore dichiarato. Non è qui il luogo di seguire la esposizione delle maniere più acconce per combattere queste ed altre frodi. Alla vigile cura della Finanza si contrappone la sottigliezza dei privati; e come quella scopre il mezzo di impedire le frodi antiche, questi ne inventano delle nuove più accorte. Il che non è in tutto male; due essendo le preoccupazioni della Finanza, nobilissima l’una, meno nobile l’altra, in questa lotta contro lo frode fiscale. E' nobile intendimento per fermo quello di impedire che alcuno si sottragga al suo debito tributario, in quanto la frode degli uni, immiserendo l'erario, lo costringe a gravare la mano su quelli che frodare non possono.

Ma d'altro canto non è male che il tentativo della Finanza di costringere tutti a pagare le altissime aliquote italiane in contri una vivace resistenza nei privati. Se questi si acquetassero, e pagassero senza fiatare, anche la Finanza si adagerebbe sulle alte quote, paga dei guadagnati allori. La frode persistente la costringe a riflettere se non le convenga di ridurre le aliquote per indurre i contribuenti a miglior consiglio o per scemare il premio dello frode. Il reato fiscale non è quindi sempre senza frutti: poiché ad esso si deve se qualcosa si ottenne in materia di minorazioni di aliquote; e più si otterrà quando tutti si convincano della necessità di semplificare ed attenuare le asprezze e le complicazioni delle nostre leggi di registro e bollo. A tal fine lavora una zelante Commissione istituita presso il Ministero delle finanze. A quando i risultati?

Luigi Einaudi 

Per la cronaca Einaudi era anche questo: “Questa del fumo e della polvere intollerabile che esce fuori dalla zona industriale di Pozzuoli e dalle altre…è una prova del disprezzo protervo che troppe imprese industriali private e pubbliche dimostrano verso l’interesse pubblico. Devono certamente esistere dispositivi tecnici grazie ai quali è possibile ridurre al minimo i danni del fumo e della polvere. I dispositivi costano per spese d’impianto e di esercizio, ma non è lecito a coloro che godono i profitti o prediligono le perdite sperate o temute nelle industrie, liberarsi da quei costi solo perché essi sono sopportati da altre categorie di cittadini”.
(In difesa dei monumenti e del paesaggio, 29 luglio 1954).

E questo “La lotta contro la distruzione del suolo italiano sarà dura e lunga, forse secolare. Ma è il massimo compito di oggi, se si vuole salvare il suolo in cui vivono gli italiani. Significherebbe che lo stato intende vegliare affinché, dopo secoli di distruzione, si salvi quel poco che resta delle foreste e del suolo delle Alpi e degli Appennini e si ricostruisca parte di quel che fu distrutto”.
(Della servitù della gleba in Italia, 15 dicembre 1951).

E molto altro ancora.

Di Einaudi consiglio la lettura di un libro che ho ritrovato pochi giorni fa. Si intitola “Prediche inutili”. In dispense nel 1955, apparso come libro nel 1959. Inizia con il saggio “Conoscere per deliberare” in pratica una parola d’ordine: “L’informazione corretta è un presupposto indispensabile per l’esercizio del diritto di voto”.Soprattutto saper “cercare la verità”.
Sul valore legale della laurea: “Che cosa altro erano le ‘botteghe’ di pittori e scultori riconosciuti poi sommi, se non scuole private? V’era bisogno di un bollo statale per accreditare i giovani usciti dalla bottega di Giotto o di Michelangelo?”.

Il liberalismo economico, secondo Einaudi, non può essere “selvaggio”. “Non fa d’uopo confutare ancora una volta la grossolana fola che il liberalismo sia sinonimo di assenza dallo stato o di assoluto lasciar fare e lasciar passare e che il socialismo sia la stessa cosa dello stato proprietario e gestore dei mezzi di produzione”. Insomma, da leggere.

Perché “Prediche inutili”? In realtà a inizio secolo Einaudi aveva raccolto degli scritti sotto il titolo “Prediche”. Quando poi volle pubblicarle (nel 1955) si accorse che in pratica le sue prediche erano rimaste lettera morta. Inutili. Ieri come oggi.

L’onestà viene lodata, ma la si lascia morire di freddo”. (Giovenale, Saturae, I, 74)

Johannes Bückler

martedì 19 gennaio 2016


In questi giorni abbiamo sentito parlare di anatocismo. Per i non addetti ai lavori, mi permetto di ricordare il significato del termine. La definizione è stata estrapolata da una enciclopedia on.line: “Con il termine anatocismo (dal greco anà - sopra, e tokòs - prodotto) si intende la capitalizzazione degli interessi su un capitale, affinché essi siano a loro volta produttivi di altri interessi (in pratica è il calcolo degli interessi sugli interessi).
Nella prassi bancaria, tali interessi vengono definiti "composti". Esempi di anatocismo sono il calcolo dell'interesse attivo su un conto di deposito, o il calcolo dell'interesse passivo di un mutuo”.
Alcuni giorni fa è stato possibile registrare la mancata approvazione della legge che prevedeva l’abolizione dell’anatocismo. Mario Draghi, nella sua prima audizione della nuova legislatura di fronte alla Commissione Affari Economici e Monetari del Parlamento europeo a Strasburgo, aveva reso dichiarazioni sulla difficile congiuntura economica. Le attese della Bce per la seconda metà del 2014 e il 2015 erano quelle per un recupero più consistente dell’attività economica. Sugli eventuali e possibili recuperi, era stato ipotizzato l’incoraggiamento del credito, eventuale riduzione del tasso di interesse, e l’ipotetico programma di rifinanziamento delle banche finalizzato alla concessione di credito a famiglie e imprese. Puntualmente i recenti dati ISTAT hanno confermato il momento di profonda recessione.
Quanto promesso sono tutti bei propositi. Analizzando l’operatività di numerose banche (italiane) è possibile notare come lo sguardo delle stesse è rivolto in ben altra direzione. In questo momento il sistema bancario italiano è impegnato a realizzare facili guadagni, certi e altamente remunerativi. Come? Certamente non concedendo credito alle famiglie e ad imprese, mutui per l’acquisto della prima casa, così come auspicato dagli appelli del Presidente della BCE. Sul sito di una affermata azienda del settore della commercializzazione dei diamanti, è possibile leggere che “la stessa è una società di intermediazione che vuole rappresentare il punto di incontro tra la domanda e l’offerta dell’investimento in diamanti.
La domanda è rappresentata dalla richiesta di cittadini italiani che desiderano investire in diamanti”. La negoziazione è garantita da un gruppo di banche che hanno aderito a questa iniziativa e che hanno costituito una partnership per gli investimenti in questo settore, ricevendo in contropartita una lauta commissione ( qualcuno indica il 12% circa).
“Oggi, investire in diamanti, è un’ottima opportunità per chi vuole diversificare il proprio portafoglio senza correre rischi, scegliendo un bene che, storicamente, si è sempre rivalutato coprendo inflazione e svalutazione.
Parlare di investimento in diamanti significa proporre l’investimento nel bene rifugio per antonomasia: è il più grande valore nel più piccolo spazio”.
La cosa che stupisce è che la banca (a cui ci si rivolge per l’operazione) non è tenuta – non si sa in virtù di quale principio o norma – alla segnalazione (tracciabilità) dei dati personali dei richiedenti l’operazione, così come previsto dalle norme dell’antiriciclaggio per tutte le operazioni che superano un certo importo.
Quindi chiunque può tranquillamente accedere a questo tipo di operazione, senza temere di essere identificato e di rimetterci nulla. Si. Perché il bene (diamanti) non è pignorabile o sequestrato in caso di reato fiscale. Mi chiedo com’è possibile non prevedere controlli sulla correttezza e regolarità di queste operazioni, non ipotizzando comunque una forma di rilevazione e segnalazioni alle Autorità competenti.
Di fatto ritengo, da uomo della strada, che tutti coloro che si avvicinano a questo tipo di transazioni (certamente la gran parte) sia finalizzato ad un investimento sicuro, lontano da occhi e controlli indiscreti.
Di fronte a questo scenario, mi chiedo e chiedo agli addetti ai lavori, se sia possibile trovarsi davanti ad una scarsa attenzione dei preposti ai controlli, o alla carenza di disposizioni di legge che hanno come obiettivo il controllo delle attività bancarie o il rispetto della normativa antiriciclaggio.
Su tutta la vicenda, sarebbe interessante e certamente costruttivo un parere del preposto all’Autorità nazionale anticorruzione, Dott. Raffaele Cantone.

Rino Impronta

sabato 9 gennaio 2016

Rapporto ISTAT “La violenza contro le donne dentro e fuori la famiglia”


05 Giugno 2015
Oggi l’Istat ha pubblicato il rapporto “La violenza contro le donne dentro e fuori la famiglia”. L’ultimo credo sia del 2006. A parte qualche nota positiva come il calo delle violenze in genere (ma non degli stupri) e l’aumento della fiducia delle donne nella giustizia, il resto è un autentico bollettino di guerra. La prima frase: “la violenza contro le donne è fenomeno ampio e diffuso” la dice lunga,

Nel corso della loro vita, 6 milioni e 788 mila donne dicono di aver subito una violenza fisica o sessuale, cioè il 31,5 per cento del totale, quasi una donna su tre. Il 5,4 per cento dice di aver subito uno stupro o un tentativo di stupro, cioè quasi un milione e mezzo di donne. Ripeto, quasi un milione e mezzo di donne.

Le donne straniere hanno subìto violenza fisica o sessuale in misura simile alle italiane nel corso della vita (31,3% e 31,5%). La violenza fisica è più frequente fra le straniere (25,7% contro 19,6%), mentre quella sessuale più tra le italiane (21,5% contro 16,2%). Le straniere sono molto più soggette a stupri e tentati stupri (7,7% contro 5,1%). Le donne moldave (37,3%), rumene (33,9%) e ucraine (33,2%) subiscono più violenze.

Il 10,6% delle donne ha subìto violenze sessuali prima dei 16 anni. Considerando il totale delle violenze subìte da donne con figli, aumenta la percentuale dei figli che hanno assistito ad episodi di violenza sulla propria madre (dal 60,3% del dato del 2006 al 65,2% rilevato nel 2014)

Le forme più gravi di violenza sono esercitate da partner, ex partner, parenti e amici. Il 62,7% degli stupri sono stati commessi da partner, il 3,6% da parenti e il 9,4% da amici, e solo il 4,6% degli stupri viene commesso da uno sconosciuto.

Le donne separate o divorziate hanno subìto violenze fisiche o sessuali in misura maggiore rispetto alle altre (51,4% contro 31,5%). Critica anche la situazione delle donne con problemi di salute o disabilità: ha subìto violenze fisiche o sessuali il 36% di chi è in cattive condizioni di salute e il 36,6% di chi ha limitazioni gravi. Il rischio di subire stupri o tentati stupri è doppio (10% contro il 4,7% delle donne senza problemi).

3 milioni 466 mila donne hanno subìto stalking nel corso della vita, il 16,1% delle donne. Di queste, 1 milione 524 mila l'ha subìto dall'ex partner, 2 milioni 229 mila da persone diverse dall'ex partner.

06 giugno 2015

Ho la possibilità di visionare tutti i quotidiani italiani e stranieri. Oggi leggerò tutti gli articoli che riguardano i dati che l’Istat ha pubblicato sulla violenza contro le donne.

06 giugno 2015 ore 18.00

Niente. Sembra che a nessuno interessi il bollettino di guerra sulle violenze delle donne. Nessun giornale ha riportato il rapporto dell’Istat in prima pagina. La Repubblica (leggi qui >>>>>) colloca la notizia in 35esima pagina. (bontà loro)
Il Foglio fa anche peggio (leggi qui >>>>>) . Prendendo spunto da un dato in calo (negli ultimi 5 anni le violenze fisiche o sessuali sono passate dal 13,3% all'11,3%, rispetto ai 5 anni precedenti il 2006) dice che in fondo il femminicidio non è un’emergenza.

Per il resto? Niente indignazione, niente sparate sui giornali, niente interviste in Tv. E' come se il fenomeno non esistesse. Perchè?

Quindi che dire. Dai dati si evince che il problema della violenza contro le donne riguarda  tutto il mondo maschile a prescindere. Che riguarda anche  noi tutti. L’indignazione quella no. Quella dipende molto, se non esclusivamente (visto come vengono trattati i fatti) dall’etnia del violentatore. E questa per le donne è l’ennesima violenza.

Johannes Bückler