Quando ho letto le dichiarazioni di Cantone “Milano torna a essere capitale morale, Roma non ha gli anticorpi” e le successive discussioni, mi sono ricordato di un vecchio articolo del grande Francesco Rosso e soprattutto di un vecchio slogan di Arrigo Benedetti : «Capitale corrotta, paese infetto».
Questo l’articolo apparso su La Stampa il 3 maggio 1981.
Città Eterna, corrotta e incorruttibile simbolo dell'Italia nel bene e nel male.
C'è una canzone su Roma, i cui versi essenziali dicono: "Roma capoccia-der monno infame". La capitale nostra, quindi, dovrebbe essere l'emblema dell'infamia universale, a giudizio del cantautore di cui non ricordo il nome. Poi la situazione si ribalta bellamente, all'italiana; il monno infame, di cui alla canzone, non è l'universo, e nemmeno il limitato mondo romanesco, ma l'Italia, evidentemente.
A meno che vogliamo rivendicare i diritti sull'impero di quell'altra Roma, per cui ci spetterebbero i danni di guerra da mezzomondo, Libia compresa, che invece li pretende da noi. No, il monno infame si riferisce proprio all'Italia, esclusivamente, il paese di cui Roma è la capitale autentica, nel senso che ci rappresenta compiutamente.
Quante volte ci accade di pronunciare vituperi contro Roma considerandola generatrice di ogni nostro malanno, di grida contro Garibaldi e Vittorio Emanuele II perché hanno voluto togliere al Papato la sua sede naturale e farne la capitale d'Italia. Ovunque sarebbe stato meglio, a Torino che fu la sede primigenia dell'Italia unita; Firenze, che fu la seconda; Milano che continua ad essere (ma lo è ancora?) la capitale morale; ma non Roma, città corruttrice di ogni valore, sentina di bassezze, tradimenti, eccetera.
Anni addietro, per indicare il malcostume politico nostrano, un giornalista-scrittore di buona fama, Arrigo Benedetti, lanciò uno slogan che ebbe fortuna: «Capitale corrotta, paese infetto». Era una diagnosi quasi esatta, ma soltanto quasi, nel senso che doveva essere rovesciata. Sarebbe stato più esatto scrivere: «Paese infetto, capitale corrotta». Perché è facile addossare a Roma tutte le infamità ma solo se facciamo astrazione da un fatto incontestabile; la Roma che conta, che ci governa e guida, non è fatta di romani de Roma, ma da italiani de Italia, ognuno con le sue qualità e difetti (purtroppo più numerosi i secondi). La Roma di cui sempre si parla è espressa da un parlamento, da un governo, da capigabinetto, funzionari, capoccioni della finanza palese e occulta, da portaborse, mestatori, traffichini facilmente identificabili dalla pronuncia; è un'Italia che va «dall'Alpi al Lilibeo» concentrata nello spazio non più esiguo della Caput Mundi, insediata fra i ruderi dei Fori Imperiali l'Ara Pacis, il Colosseo, la Colonna Traiano, la piramide di Caio Cestio, gli Acquedotti e le Tombe dell'Appio Antica.
A grattare anche poco, vien fuori una Roma che di romano ha conservato soltanto i ruderi imperiali ed una certa parlata rabbiosa di Trastevere; il resto ha cadenze meneghine, venete, sicule, calabre, apule, campane, etnische, gianduiotte, con il resto che è facile identificare. Roma, quella che conta e comanda, è fatta da italiani che noi, votando, mandiamo a rappresentarci nella capitale, e costoro, grazie al nostro mandato, scelgono i loro collaboratori, che a loro volta scelgono gli amici, poi gli amici degli amici; e avanti di questo passo.
Roma, quindi, riflette noi come uno specchio, ed il monno infame di cui è capoccia, è composto da noi tutti, cittadini del Bel Paese. Mi pare una distinzione che doveva essere fatta, non per rivalutare e difendere Roma, che non ha bisogno, ma per stabilire alcuni principi da cui si può partire per esprimere un giudizio sulla nostra capitale. Roma è quello che è, una città singolare che già non piaceva molto a Cola di Rienzo prima, al Belli più tardi, i quali però erano poi tenerissimi verso la loro città quando si esprimevano in privato.
Di Roma si può sparlare, anche vituperarla, ma non si può non amarla. E' un emblema che, talvolta, vorremmo calpestare, distruggere; ma subito ci rendiamo conto quale guaio sarebbe se non ci fosse. E dobbiamo ringraziare di averla come capitale proprio per ciò che è stata in passato. Quante grandi città antiche sono sopravvissute alla loro fama, alla loro potenza? Prendiamo Atene. C'è il Partenone, e basta. Qualche statua nei musei, il ricordo delle Olimpiadi, ora rivendicate ai fenici da uno storico libanese, un paio di teatri famosi sparsi qua e là in tutta la Grecia, e non andiamo oltre. Tebe dalle cento porte in Egitto è ridotta a pochi avanzi Non parliamo di Babilonia e Ninive, note soltanto agli archeologi ed a turisti specializzati.
Roma, invece, è lì da sempre, corrotta ed incorruttibile, e proprio per questo unica, irripetibile, insostituibile. Un'Italia senza Roma capitale non è pensabile, e se Garibaldi fece tanto per conquistarla ed i garibaldini si fecero massacrare per farne una repubblica sfidando i chassepots di Napoleone il Piccolo, un motivo l'avevano, e dobbiamo essergli grati che abbiano scatenato le ire degli imperi di Francia ed Austria per contenderla al papa. La breccia di Porta Pia è già un po' mitologica, ma nella nostra storia vale quanto le Termopili greche contro i persiani E' un simbolo che, al di fuori della rettorica scolastica, non conoscerà tramonti A parte le considerazioni di valore nazional-patriottico, ci sono quelle sentimen tal-religiose.
A Roma c'è il Papa, che abita nella Città del Vaticano, il più piccolo Stato del mondo che però fa sentire la sua voce in ogni angolo della terra. Non ha potere temporale, non ha eserciti, tranne alcune guardie svizzere abbigliate alla rinascimentale da Michelangelo, si dice, ma quando parla dalla sua finestra il papa si rivolge davvero urbi et orbi, a Roma ed al mondo, ed è ascoltato come nessun altro monarca di questa terra.
Vola in Messico, nelle Filippine, in Giappone, in Africa, all'Onu, ed ovunque è accolto da folle immense. E' soltanto isterismo collettivo, entusiasmo contagioso? Bisogna andar cauti nel giudicare questo fenomeno, dargli una patente.
Roma, dunque, è una città composita, fatta di bellezze entusiasmanti e di desolanti bassezze, che però non sono un suo privilegio. Privilegi suoi sono Piazza di Spagna, la Scalinata di Trinità dei Monti, San Pietro ed il colonnato del Bernini, la Basilica di Massenzio, il Colosseo, la Passeggiata Archeologica, l'Arco di Costantino, il Tempio di Vesta e tanti altri grandiosi monumenti che soltanto una guida turistico-archeologica può elencare.
Roma è com'è, splendidamente becera e civilissima, con le tavolate di commensali sbracati nelle osterie di Trastevere, le folle sudanti e urlanti sul Lido di Ostia; e delle raffinate boutiques di via Condotti del Caffè Greco, di Piazza del Popolo e di via Veneto.
Roma non è soltanto il nome di una città, è l'espressione di un mondo che ci appartiene, del quale non possiamo fare a meno, anche se spesso vengono alla lingua insulti folgoranti.
Che poi a guardar bene, sono diretti a liguri, lombardi marchigiani romagnoli come già detto avanti i quali più che Roma, rappresentano l'Italia.
Francesco Rosso su La Stampa – 03 maggio 1981
Scomparso a Torino nel 1991 a 81 anni, Francesco Rosso, giornalista nato a Pertengo, esordì sulle pagine dell' Opinione e poi su quelle della Gazzetta del Popolo, per passare poi, nel 1954, a La Stampa, dove rimase fino alla pensione. ‘Cecco’ Rosso, come lo hanno chiamato affettuosamente generazioni di giornalisti firmò come inviato speciale servizi ed interviste memorabili, tra le quali quelle al Negus, a Ben Gurion e a Che Guevara.
Nel 1975, su sollecitazione di Giovanni Arpino che dirigeva la rivista Il Racconto, costruì una sorta di reportage in cui rievocava i suoi viaggi a Zanzibar quando nel 1960 era ancora colonia britannica. Pubblicò le sue note di viaggio al Gargano di chi lo percorse in lungo e in largo nel corso del Novecento. Francesco Rosso aveva lasciato la professione attiva nel 1976, pur continuando, per anni, a collaborare con varie testate. Riposa accanto alla moglie nel Cimitero di Pertengo.
Johannes Bückler
Questo l’articolo apparso su La Stampa il 3 maggio 1981.
Città Eterna, corrotta e incorruttibile simbolo dell'Italia nel bene e nel male.
C'è una canzone su Roma, i cui versi essenziali dicono: "Roma capoccia-der monno infame". La capitale nostra, quindi, dovrebbe essere l'emblema dell'infamia universale, a giudizio del cantautore di cui non ricordo il nome. Poi la situazione si ribalta bellamente, all'italiana; il monno infame, di cui alla canzone, non è l'universo, e nemmeno il limitato mondo romanesco, ma l'Italia, evidentemente.
A meno che vogliamo rivendicare i diritti sull'impero di quell'altra Roma, per cui ci spetterebbero i danni di guerra da mezzomondo, Libia compresa, che invece li pretende da noi. No, il monno infame si riferisce proprio all'Italia, esclusivamente, il paese di cui Roma è la capitale autentica, nel senso che ci rappresenta compiutamente.
Quante volte ci accade di pronunciare vituperi contro Roma considerandola generatrice di ogni nostro malanno, di grida contro Garibaldi e Vittorio Emanuele II perché hanno voluto togliere al Papato la sua sede naturale e farne la capitale d'Italia. Ovunque sarebbe stato meglio, a Torino che fu la sede primigenia dell'Italia unita; Firenze, che fu la seconda; Milano che continua ad essere (ma lo è ancora?) la capitale morale; ma non Roma, città corruttrice di ogni valore, sentina di bassezze, tradimenti, eccetera.
Anni addietro, per indicare il malcostume politico nostrano, un giornalista-scrittore di buona fama, Arrigo Benedetti, lanciò uno slogan che ebbe fortuna: «Capitale corrotta, paese infetto». Era una diagnosi quasi esatta, ma soltanto quasi, nel senso che doveva essere rovesciata. Sarebbe stato più esatto scrivere: «Paese infetto, capitale corrotta». Perché è facile addossare a Roma tutte le infamità ma solo se facciamo astrazione da un fatto incontestabile; la Roma che conta, che ci governa e guida, non è fatta di romani de Roma, ma da italiani de Italia, ognuno con le sue qualità e difetti (purtroppo più numerosi i secondi). La Roma di cui sempre si parla è espressa da un parlamento, da un governo, da capigabinetto, funzionari, capoccioni della finanza palese e occulta, da portaborse, mestatori, traffichini facilmente identificabili dalla pronuncia; è un'Italia che va «dall'Alpi al Lilibeo» concentrata nello spazio non più esiguo della Caput Mundi, insediata fra i ruderi dei Fori Imperiali l'Ara Pacis, il Colosseo, la Colonna Traiano, la piramide di Caio Cestio, gli Acquedotti e le Tombe dell'Appio Antica.
A grattare anche poco, vien fuori una Roma che di romano ha conservato soltanto i ruderi imperiali ed una certa parlata rabbiosa di Trastevere; il resto ha cadenze meneghine, venete, sicule, calabre, apule, campane, etnische, gianduiotte, con il resto che è facile identificare. Roma, quella che conta e comanda, è fatta da italiani che noi, votando, mandiamo a rappresentarci nella capitale, e costoro, grazie al nostro mandato, scelgono i loro collaboratori, che a loro volta scelgono gli amici, poi gli amici degli amici; e avanti di questo passo.
Roma, quindi, riflette noi come uno specchio, ed il monno infame di cui è capoccia, è composto da noi tutti, cittadini del Bel Paese. Mi pare una distinzione che doveva essere fatta, non per rivalutare e difendere Roma, che non ha bisogno, ma per stabilire alcuni principi da cui si può partire per esprimere un giudizio sulla nostra capitale. Roma è quello che è, una città singolare che già non piaceva molto a Cola di Rienzo prima, al Belli più tardi, i quali però erano poi tenerissimi verso la loro città quando si esprimevano in privato.
Di Roma si può sparlare, anche vituperarla, ma non si può non amarla. E' un emblema che, talvolta, vorremmo calpestare, distruggere; ma subito ci rendiamo conto quale guaio sarebbe se non ci fosse. E dobbiamo ringraziare di averla come capitale proprio per ciò che è stata in passato. Quante grandi città antiche sono sopravvissute alla loro fama, alla loro potenza? Prendiamo Atene. C'è il Partenone, e basta. Qualche statua nei musei, il ricordo delle Olimpiadi, ora rivendicate ai fenici da uno storico libanese, un paio di teatri famosi sparsi qua e là in tutta la Grecia, e non andiamo oltre. Tebe dalle cento porte in Egitto è ridotta a pochi avanzi Non parliamo di Babilonia e Ninive, note soltanto agli archeologi ed a turisti specializzati.
Roma, invece, è lì da sempre, corrotta ed incorruttibile, e proprio per questo unica, irripetibile, insostituibile. Un'Italia senza Roma capitale non è pensabile, e se Garibaldi fece tanto per conquistarla ed i garibaldini si fecero massacrare per farne una repubblica sfidando i chassepots di Napoleone il Piccolo, un motivo l'avevano, e dobbiamo essergli grati che abbiano scatenato le ire degli imperi di Francia ed Austria per contenderla al papa. La breccia di Porta Pia è già un po' mitologica, ma nella nostra storia vale quanto le Termopili greche contro i persiani E' un simbolo che, al di fuori della rettorica scolastica, non conoscerà tramonti A parte le considerazioni di valore nazional-patriottico, ci sono quelle sentimen tal-religiose.
A Roma c'è il Papa, che abita nella Città del Vaticano, il più piccolo Stato del mondo che però fa sentire la sua voce in ogni angolo della terra. Non ha potere temporale, non ha eserciti, tranne alcune guardie svizzere abbigliate alla rinascimentale da Michelangelo, si dice, ma quando parla dalla sua finestra il papa si rivolge davvero urbi et orbi, a Roma ed al mondo, ed è ascoltato come nessun altro monarca di questa terra.
Vola in Messico, nelle Filippine, in Giappone, in Africa, all'Onu, ed ovunque è accolto da folle immense. E' soltanto isterismo collettivo, entusiasmo contagioso? Bisogna andar cauti nel giudicare questo fenomeno, dargli una patente.
Roma, dunque, è una città composita, fatta di bellezze entusiasmanti e di desolanti bassezze, che però non sono un suo privilegio. Privilegi suoi sono Piazza di Spagna, la Scalinata di Trinità dei Monti, San Pietro ed il colonnato del Bernini, la Basilica di Massenzio, il Colosseo, la Passeggiata Archeologica, l'Arco di Costantino, il Tempio di Vesta e tanti altri grandiosi monumenti che soltanto una guida turistico-archeologica può elencare.
Roma è com'è, splendidamente becera e civilissima, con le tavolate di commensali sbracati nelle osterie di Trastevere, le folle sudanti e urlanti sul Lido di Ostia; e delle raffinate boutiques di via Condotti del Caffè Greco, di Piazza del Popolo e di via Veneto.
Roma non è soltanto il nome di una città, è l'espressione di un mondo che ci appartiene, del quale non possiamo fare a meno, anche se spesso vengono alla lingua insulti folgoranti.
Che poi a guardar bene, sono diretti a liguri, lombardi marchigiani romagnoli come già detto avanti i quali più che Roma, rappresentano l'Italia.
Francesco Rosso su La Stampa – 03 maggio 1981
Scomparso a Torino nel 1991 a 81 anni, Francesco Rosso, giornalista nato a Pertengo, esordì sulle pagine dell' Opinione e poi su quelle della Gazzetta del Popolo, per passare poi, nel 1954, a La Stampa, dove rimase fino alla pensione. ‘Cecco’ Rosso, come lo hanno chiamato affettuosamente generazioni di giornalisti firmò come inviato speciale servizi ed interviste memorabili, tra le quali quelle al Negus, a Ben Gurion e a Che Guevara.
Nel 1975, su sollecitazione di Giovanni Arpino che dirigeva la rivista Il Racconto, costruì una sorta di reportage in cui rievocava i suoi viaggi a Zanzibar quando nel 1960 era ancora colonia britannica. Pubblicò le sue note di viaggio al Gargano di chi lo percorse in lungo e in largo nel corso del Novecento. Francesco Rosso aveva lasciato la professione attiva nel 1976, pur continuando, per anni, a collaborare con varie testate. Riposa accanto alla moglie nel Cimitero di Pertengo.
Johannes Bückler
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