« Tutto dallo Stato, ma niente per lo Stato »: questo è un modo di pensare sempre più diffuso tra noi italiani e qui è la causa che più di ogni altra contribuisce a tenerci impiastricciati nel vischio della lunga crisi economica.
Evidentemente, se ci ostineremo a pensare in questo modo, i nostri guai non potranno che aumentare. Risalire nel tempo e indagare quando e perché cominciammo a vedere lo Stato come una specie di pozzo di San Patrizio, ci svierebbe lontano e in definitiva non servirebbe granché. Molto più salutare sarebbe invece persuadere gli italiani che cosi non si può andare avanti.
Ed essi cominceranno a rendersene conto solo il giorno in cui gli si farà constatare che l'immaginario pozzo senza fine è in realtà un modesto barilotto, e che ormai si sta grattando quel poco che resta sul fondo di esso. Però il governo si astiene dal farlo, sebbene ne sia sollecitato continuamente da più parti. Una delle conseguenze, diciamo la più perniciosa, è l'illusione che così si potrà andare avanti all'infinito, sempre all'insegna di « tutto dallo Stato, ma niente per lo Stato ». Facciamo qualche esempio. Aumenta il numero dei giovani che non riescono a trovare una prima occupazione, aumenta il numero degli anziani espulsi dal lavoro, diminuisce l'occupazione femminile. Viceversa continua a gonfiarsi il numero delle persone che riescono a conquistarsi un posto nella pubblica amministrazione.
Solo nel 1971 i nuovi assunti furono 140 mila, di cui 46 mila dallo Stato, 34 mila da aziende autonome, 45 mila da enti locali e 15 mila da enti di diritto pubblico. Ormai siamo vicini al grande traguardo di due milioni di dipendenti pubblici, con un fortissimo distacco rispetto a tutti i Paesi del Mercato Comune: nel settore dei servizi o terziario gli occupati presso pubbliche amministrazioni in Italia sono il 27 per cento, nella Germania il 19, nel Belgio il 14, nella Francia 11.
Per molti aspetti è una massa impiegatizia che suscita il ricordo dell'esercito che era al soldo dell'ultimo re borbonico, il mite e indeciso Franceschiello: un esercito mal pagato, con capi spesso incapaci e corrompibili, con truppe propense — per dirla con espressioni ora di moda — alla disaffezione e all'assenteismo; e dunque un esercito per modo di dire, sempre incline a sbracarsi e a sbandarsi. Poco lavoro, tirare a campare tra « ponti» e scioperi, un continuo mugugno anche quando uno riesce quatto quatto a farsi una posizione invidiabile: che nome vogliamo dare a uno Stato così, uno Stato che la progressiva elefantiasi rende incapace di riformarsi e di riformare le strutture della società anche quando siano palesemente storte e ingiuste, antiquate e paralizzanti.
Vogliamo parlare di Stato assistenziale? Oppure di un neosocialismo all'italiana? O addirittura di riaffioranti vocazioni borboniche e levantine? Fate come più vi piace; la sostanza non cambia. Se ora usciamo fuori dai pubblici uffici, la stessa mentalità di « tutto dallo Stato, ma niente per lo Stato » incontriamo un po' dappertutto. Per esempio, tra i titolari di imprese grandi o medie s'infittisce la schiera di coloro che trafficano por farsi comprare l'azienda dalla mano pubblica.
La tattica e semplice: da una parte essi esasperano le tensioni tra gli operai, dall'altra vanno nei ministeri e — conti alla mano — dimostrano di essere costretti a chiudere la loro impresa e a mettere sul lastrico centinaia di lavoratori. Sindacati e partiti entrano in ebollizione, e spesso «l'affare » va in porto con soddisfazione generale: dell'imprenditore che ha incassato una grossa somma e si è tolto dalla mischia, e parimenti dei lavoratori che ormai sanno di avere un padrone molle, di solito un amministratore designato da qualche partito e amante soprattutto del quieto vivere. Sono questi i frutti della qualità di cui noi italiani vili ci vantiamo, la furberia.
Però se ci mettiamo tutti a fare i furbi, allora andrà a finire come a quella squadra di soldati di colore, subito dopo la guerra, Ernesto Rossi osservò mentre trasportavano tubi metallici nel porto di Livorno. Per faticare meno degli altri, il primo della fila piegava un po' la spalla; quello che stava dietro lo imitava, e così faceva il terzo della fila, poi il quarto, il quinto...
Quando l'ultimo della squadra si era curvato anche lui, tutti venivano a trovarsi nelle stesse condizioni iniziali, e allora il primo si curvava un altro po', il secondo faceva lo stesso, e così il terzo, il quarto, il quinto...
A un certo punto, diceva Ernesto Rossi, a furia di abbassarsi per voler essere ciascuno più furbo degli altri, i soldati quasi strisciavano per terra, quasi contorcendosi come un millepiedi: e naturalmente in una posizione così scomoda faticavano il doppio, il triplo, chissà quanto di più che se avessero trasportato i tubi metallici stando diritti e ognuno facendo con semplicità il suo dovere.
Ci ridurremo così anche noi italiani se continuerà ad aumentare la voglia o la necessità di intrufolarci nella pubblica amministrazione, individui singoli e aziende intere, e se cercheremo — furbi come siamo — di lavorare sempre meno con settimane cortissime e con « ponti » che si rincorrono veloci attraverso festività, scioperi e ferie?
Direi che è inevitabile: a un certo momento saremo tutti più o meno pubblici dipendenti, avremo bensì i più vantaggiosi contratti di lavoro del mondo, magari saremo anche pregati di non recarci al posto di lavoro per mancanza di spazio; però togliamoci dalla mente di potere avere nello stesso tempo buste paga con un peso reale consistente.
Verosimilmente dentro le buste ci saranno tanti, tantissimi milioni, forse anche miliardi, ma con tutta quella carta straccia sarà già molto se riusciremo a sfamarci ogni giorno, tutti i giorni dell'anno.
E solo allora, quando saremo pieni di ozio e di squallore davanti al muro della realtà, potremo infine calcolare i costi esosi delle nostre furberie e convincerci che erano in malafede o ignorami o pazzi, pazzi da legare, coloro che ci davano a intendere che lo Stato fosse un forziere inesauribile, in tutto e per tutti un gran bel pozzo di San Patrizio.
Nicola Adelfi (La Stampa - 24 Dicembre 1972)
P.S. Questo scriveva nel 1972. Come tutti, quando denunciavano sprechi e quant'altro rimase inascoltato. Pochi mesi dopo il Governo Rumor approvò il testo unico delle norme sul trattamento di quiescenza dei dipendenti civili e militari dello Stato, che consentiva le baby pensioni nell'impiego pubblico: 14 anni 6 mesi e 1 giorno di contributi per le donne sposate con figli; 20 anni per gli statali; 25 per i dipendenti degli enti locali. Nessuno protestò. Evidentemente, se ci ostineremo a pensare in questo modo, i nostri guai non potranno che aumentare. Risalire nel tempo e indagare quando e perché cominciammo a vedere lo Stato come una specie di pozzo di San Patrizio, ci svierebbe lontano e in definitiva non servirebbe granché. Molto più salutare sarebbe invece persuadere gli italiani che cosi non si può andare avanti.
Ed essi cominceranno a rendersene conto solo il giorno in cui gli si farà constatare che l'immaginario pozzo senza fine è in realtà un modesto barilotto, e che ormai si sta grattando quel poco che resta sul fondo di esso. Però il governo si astiene dal farlo, sebbene ne sia sollecitato continuamente da più parti. Una delle conseguenze, diciamo la più perniciosa, è l'illusione che così si potrà andare avanti all'infinito, sempre all'insegna di « tutto dallo Stato, ma niente per lo Stato ». Facciamo qualche esempio. Aumenta il numero dei giovani che non riescono a trovare una prima occupazione, aumenta il numero degli anziani espulsi dal lavoro, diminuisce l'occupazione femminile. Viceversa continua a gonfiarsi il numero delle persone che riescono a conquistarsi un posto nella pubblica amministrazione.
Solo nel 1971 i nuovi assunti furono 140 mila, di cui 46 mila dallo Stato, 34 mila da aziende autonome, 45 mila da enti locali e 15 mila da enti di diritto pubblico. Ormai siamo vicini al grande traguardo di due milioni di dipendenti pubblici, con un fortissimo distacco rispetto a tutti i Paesi del Mercato Comune: nel settore dei servizi o terziario gli occupati presso pubbliche amministrazioni in Italia sono il 27 per cento, nella Germania il 19, nel Belgio il 14, nella Francia 11.
Per molti aspetti è una massa impiegatizia che suscita il ricordo dell'esercito che era al soldo dell'ultimo re borbonico, il mite e indeciso Franceschiello: un esercito mal pagato, con capi spesso incapaci e corrompibili, con truppe propense — per dirla con espressioni ora di moda — alla disaffezione e all'assenteismo; e dunque un esercito per modo di dire, sempre incline a sbracarsi e a sbandarsi. Poco lavoro, tirare a campare tra « ponti» e scioperi, un continuo mugugno anche quando uno riesce quatto quatto a farsi una posizione invidiabile: che nome vogliamo dare a uno Stato così, uno Stato che la progressiva elefantiasi rende incapace di riformarsi e di riformare le strutture della società anche quando siano palesemente storte e ingiuste, antiquate e paralizzanti.
Vogliamo parlare di Stato assistenziale? Oppure di un neosocialismo all'italiana? O addirittura di riaffioranti vocazioni borboniche e levantine? Fate come più vi piace; la sostanza non cambia. Se ora usciamo fuori dai pubblici uffici, la stessa mentalità di « tutto dallo Stato, ma niente per lo Stato » incontriamo un po' dappertutto. Per esempio, tra i titolari di imprese grandi o medie s'infittisce la schiera di coloro che trafficano por farsi comprare l'azienda dalla mano pubblica.
La tattica e semplice: da una parte essi esasperano le tensioni tra gli operai, dall'altra vanno nei ministeri e — conti alla mano — dimostrano di essere costretti a chiudere la loro impresa e a mettere sul lastrico centinaia di lavoratori. Sindacati e partiti entrano in ebollizione, e spesso «l'affare » va in porto con soddisfazione generale: dell'imprenditore che ha incassato una grossa somma e si è tolto dalla mischia, e parimenti dei lavoratori che ormai sanno di avere un padrone molle, di solito un amministratore designato da qualche partito e amante soprattutto del quieto vivere. Sono questi i frutti della qualità di cui noi italiani vili ci vantiamo, la furberia.
Però se ci mettiamo tutti a fare i furbi, allora andrà a finire come a quella squadra di soldati di colore, subito dopo la guerra, Ernesto Rossi osservò mentre trasportavano tubi metallici nel porto di Livorno. Per faticare meno degli altri, il primo della fila piegava un po' la spalla; quello che stava dietro lo imitava, e così faceva il terzo della fila, poi il quarto, il quinto...
Quando l'ultimo della squadra si era curvato anche lui, tutti venivano a trovarsi nelle stesse condizioni iniziali, e allora il primo si curvava un altro po', il secondo faceva lo stesso, e così il terzo, il quarto, il quinto...
A un certo punto, diceva Ernesto Rossi, a furia di abbassarsi per voler essere ciascuno più furbo degli altri, i soldati quasi strisciavano per terra, quasi contorcendosi come un millepiedi: e naturalmente in una posizione così scomoda faticavano il doppio, il triplo, chissà quanto di più che se avessero trasportato i tubi metallici stando diritti e ognuno facendo con semplicità il suo dovere.
Ci ridurremo così anche noi italiani se continuerà ad aumentare la voglia o la necessità di intrufolarci nella pubblica amministrazione, individui singoli e aziende intere, e se cercheremo — furbi come siamo — di lavorare sempre meno con settimane cortissime e con « ponti » che si rincorrono veloci attraverso festività, scioperi e ferie?
Direi che è inevitabile: a un certo momento saremo tutti più o meno pubblici dipendenti, avremo bensì i più vantaggiosi contratti di lavoro del mondo, magari saremo anche pregati di non recarci al posto di lavoro per mancanza di spazio; però togliamoci dalla mente di potere avere nello stesso tempo buste paga con un peso reale consistente.
Verosimilmente dentro le buste ci saranno tanti, tantissimi milioni, forse anche miliardi, ma con tutta quella carta straccia sarà già molto se riusciremo a sfamarci ogni giorno, tutti i giorni dell'anno.
E solo allora, quando saremo pieni di ozio e di squallore davanti al muro della realtà, potremo infine calcolare i costi esosi delle nostre furberie e convincerci che erano in malafede o ignorami o pazzi, pazzi da legare, coloro che ci davano a intendere che lo Stato fosse un forziere inesauribile, in tutto e per tutti un gran bel pozzo di San Patrizio.
Nicola Adelfi (La Stampa - 24 Dicembre 1972)
Nicola Adelfi pseudonimo di Nicola De Feo. Giornalista italiano (Modugno 1909 - Roma 1987), fratello di Sandro.Viaggiò come inviato speciale di quotidiani e di settimanali (L'Europeo, L'Espresso, Epoca, ecc.), e curò varie rubriche radiofoniche e televisive. Redattore per molti anni de La Stampa, si occupò di politica e specialmente di costume, dei cui mutamenti, quali indici della trasformazione della società contemporanea, è stato acuto indagatore e perspicuo, quanto appassionato, commentatore. Nicola era un giornalista gentiluomo. La biografia di Nicola Adelfi è la testimonianza senza ombre di un impegno intellettuale e umano che non è mai venuto meno durante tutta la sua vita.
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